La ridotta disponibilità di ossigeno in alta quota causa un aumento progressivo della pressione arteriosa nelle 24 ore.
Lo dimostra, per la prima volta, uno studio dell’Università di Milano-Bicocca e dell’Istituto Auxologico Italiano pubblicato sullo European Heart Journal e condotto sul monte Everest. I ricercatori hanno anche dimostrato che la “protezione” farmacologica regge solo fino a 3400 metri di altezza, altitudini raggiunte da turisti, escursionisti e alcuni lavoratori, ma non a quote più elevate.
La ridotta disponibilità di ossigeno in alta quota causa un aumento della pressione arteriosa nelle 24 ore. A dimostrarlo, per la prima volta, è una ricerca dell’Università di Milano-Bicocca e dell’Istituto Auxologico Italiano, condotta sul Monte Everest e pubblicata online oggi sullo European Heart Journal (“Changes in 24 hour ambulatory blood pressure and effects of angiotensin II receptor blockade during acute and prolonged high altitude exposure. A randomized clinical trial” DOI: 10.1093/eurheartj/ehu275).
I ricercatori hanno anche osservato che il telmisartan, un farmaco usato per abbassare la pressione arteriosa, è efficace nel contrastare gli effetti della quota sull’incremento di pressione fino a 3400 metri, mentre non lo è più alla quota di 5400 metri, cioè all’altezza del Campo Base dell’Everest.
I risultati mostrano come durante l’esposizione alla quota molto elevata di 5400 metri si verifichi un aumento di 14 mmHg nel valore medio della pressione arteriosa sistolica delle 24 ore e di 10 mmHg nella pressione diastolica.
Nel corso dello studio è stata monitorata la pressione arteriosa in condizioni dinamiche per 24 ore a diverse altitudini (guarda la gallery). La ricerca ha coinvolto un gruppo di volontari sani che normalmente vivono, lavorano e svolgono attività sportive a livello mare, con lo scopo di indagare gli effetti sulla pressione arteriosa e su numerosi altri aspetti della funzione cardiorespiratoria generati da una esposizione acuta e prolungata alla ridotta disponibilità di ossigeno in alta quota. I risultati possono tuttavia essere di interesse anche per persone che, pur trovandosi a bassa quota, potrebbero per svariati motivi, trovarsi temporaneamente in ipossia, senza cioè un adeguato apporto di ossigeno. È quello che succede, ad esempio, a quanti soffrono di apnee notturne, episodi che riducono a intermittenza la concentrazione di ossigeno nel sangue facilitando la comparsa di ipertensione arteriosa e il rischio di attacchi ischemici o cardiaci.
Durante la spedizione, la pressione arteriosa è stata misurata ogni mattina. I valori di pressione sono stati monitorati anche utilizzando un dispositivo in grado di misurarla ogni 15-20 minuti durante l’intero arco della giornata, fornendo i dati per il “monitoraggio dinamico della pressione”, un metodo molto più accurato della misurazione tradizionale per valutare il reale livello pressorio. Con questo metodo è anche possibile misurare la pressione arteriosa notturna, che è normalmente inferiore del 10-20 per cento rispetto ai valori diurni, permettendo di valutare meglio la prognosi rispetto ad altri parametri pressori. La mancata riduzione della pressione durante le ore notturne, nonostante lo stato di sonno, può essere un segno di alterazioni nella regolazione della funzione dei vasi sanguigni e del cuore.
Per lo studio, tredici dei quindici autori, insieme a 47 volontari, hanno raggiunto il campo base sud (lato Nepalese) del monte Everest, ad un’altitudine di 5400 metri sul livello del mare. Prima, però, ci sono state delle tappe intermedie: partenza da Milano (altitudine 120 metri) con volo in direzione Kathmandu, Nepal (1355 metri), dove il gruppo si è fermato per tre giorni. Poi, ricercatori e volontari si sono spostati rapidamente, ancora in volo, a Namche Bazaar, sempre in Nepal (3400 metri), dove sono rimasti per altri tre giorni prima di iniziare il trekking di risalita (5 giorni) verso il campo base dell’Everest, dove si sono fermati per 12 giorni.
I volontari sono stati assegnati in modo casuale a ricevere un placebo o un farmaco comunemente utilizzato in clinica per la terapia dell’ipertensione arteriosa, il telmisartan (80mg). I risultati mostrano come sia nei soggetti randomizzati al trattamento con farmaco attivo, sia in quelli randomizzati a placebo, cioè senza terapia, la pressione aumenti significativamente in quota rispetto ai valori iniziali, soprattutto nelle ore notturne, e come l’assunzione del farmaco antipertensivo possa permettere di contenere questo fenomeno, ma solo fino a determinate quote.
Gianfranco Parati, coordinatore del progetto, professore ordinario di Malattie dell’Apparato Cardiovascolare dell’Università di Milano-Bicocca e Direttore del Laboratorio di Ricerche Cardiologiche dell’Istituto Auxologico Italiano, spiega: «Il nostro studio fornisce la prima dimostrazione sistematica che con l’aumentare della quota aumenta progressivamente e marcatamente la pressione arteriosa. Questo incremento avviene immediatamente al raggiungimento dell’alta quota, perdura durante l’esposizione prolungata all’alta quota ed è evidente durante tutto l’arco delle 24 ore, ma con un incremento maggiore nelle ore notturne, con conseguente attenuazione della fisiologica caduta notturna della pressione. La pressione si normalizza una volta ritornati al livello del mare. Inoltre, l’aumento della pressione sistolica al Campo Base dell’Everest è stato maggiore in persone di età superiore ai 50 anni rispetto ai soggetti più giovani».
«Questi dati – continua Parati – possono avere implicazioni utili per la cura di pazienti con malattie croniche associate ad uno stato di ipossia, quali lo scompenso cardiaco (ove si osserva una periodica interruzione del respiro), la riacutizzazione della broncopneumopatia cronica ostruttiva, le apnee ostruttive nel sonno o l’obesità di grado severo. Messe insieme, queste condizioni si riscontrano in più di 600 milioni di persone nel mondo, il che rende i nostri risultati molto significativi dal punto di vista clinico. L’aumento di pressione osservato può essere attribuito a diversi fattori, tra i quali il più importante sembra l’attivazione del sistema nervoso simpatico, determinato dalla ridotta disponibilità di ossigeno. Tale fenomeno fa si che il cuore venga sottoposto ad un carico maggiore di lavoro e che i vasi sanguigni si costringano».
«I nostri risultati – conclude Parati – ci permetteranno di istruire i pazienti con problemi cardiovascolari sulle precauzioni necessarie in caso di esposizione all’alta quota per motivi lavorativi o ludici. Inoltre il nostro studio sottolinea l’importanza del monitoraggio dinamico ambulatorio della pressione nella caratterizzazione dei livelli pressori nelle condizioni di vita reale; questo dato sembra particolarmente rilevante in condizioni di ipossia, i cui effetti possono essere molto più evidenti durate le attività quotidiane che non a riposo».
La spedizione sull’Everest, che si è svolta nel 2008, è parte di una serie di spedizioni ad alta quota condotte dai ricercatori della Bicocca e dell’Auxologico nell’ambito del progetto di ricerca HIGHCARE (HIGH altitude CArdiovascular REsearch). Sulle Alpi, alla Capanna Regina Margherita sul Monte Rosa (4559m) sono state studiate le risposte di volontari a diversi interventi farmacologici e non farmacologici volti a contrastare gli effetti cardiovascolari dell’ipossia ipobarica acuta. Nelle Ande Peruviane sono state invece studiate le modificazioni della pressione arteriosa nelle 24 ore sia in persone che vivono stabilmente a quote elevate, sia in soggetti ipertesi, che vivono in paesi sul livello del mare, quando sono esposti acutamente a quote elevate. HIGHCARE Alps–Mont Blanc è invece la spedizione di ricerca ancora in corso sulle reazioni dell’organismo al lavoro in alta quota organizzata sempre dall’Università di Milano-Bicocca e dall’Istituto Auxologico Italiano in collaborazione con la l’Azienda USL Valle D’Aosta sui cantieri della nuova funivia del Monte Bianco.
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