La teoria della relatività e qualche curiosità
Negli anni immediatamente successivi alla pubblicazione della teoria della relatività generale, Arthur Eddington, celebre astrofisico e filosofo della scienza, autore di numerosi articoli che spiegavano la teoria ai lettori di lingua inglese, tenne una serie di conferenze sull’argomento.
Durante una di queste il fisico polacco Ludwik Silberstein, noto per il suo scetticismo verso i risultati delle equazioni di Einstein, gli rinfacciò: «Lei, professor Eddington, deve essere una delle tre persone in tutto il mondo che capiscono la relatività generale». Eddington non rispose subito ma all’incalzare di Silberstein alla fine esclamò: «Tutt’altro, sto ancora cercando di capire chi sia il terzo».
Molti continuano a chiedersi se sia ancora così: se la relatività, a causa della sua complessa
struttura matematica, debba necessariamente rimanere argomento per specialisti che non possa essere insegnato a un livello più elementare.
C’è del vero e lo è in particolare per gli studenti della scuola secondaria che già faticano con la fisica classica che giudicano complicata, persino più della matematica.
La barriera di natura psicologica che deriva dalla difficoltà di adattare nuovi concetti ai preconcetti, alla comprensione comunemente accettata del mondo che ci circonda, diventa senza dubbio ancora più difficile da superare quando si affronta lo studio della relatività, il cui fascino sta proprio nella sua contraddizione con le nostre più radicate intuizioni sulla natura dello spazio e del tempo.
Poco, ma bene
La relatività non è una disciplina a sé, è parte di un programma di studi articolato ed è necessario fare i conti con la situazione reale, organizzando un percorso didattico coerente che eviti di puntare troppo in alto.
Non siamo obbligati a insegnare la metrica di Schwarzschild solo perché non vediamo l’ora di parlare dei buchi neri! Il rischio è quello di banalizzare concetti complessi e stravolgere uno stile di apprendimento per dar spazio a soluzioni innovative che confondono più che aiutare. I ragazzi non sono scienziati in erba, devono essere condotti per mano e con chiarezza lungo i sentieri della disciplina e non è detto che raccontare tutto sia per forza una scelta opportuna.
Poco ma bene è la scelta giusta: «Bisogna arrivare a non sbagliarsi mai, il segreto è non fare troppo in fretta», diceva madame Curie.
Si comincia quindi con la relatività ristretta e lo si fa come Einstein ci ha insegnato, per esempio impiegando la tecnica di ragionamento concettuale chiamata esperimento mentale che servirà per chiarire una volta di più concetti importanti, come riferimenti e osservatori, e ad introdurre i nuovi vincoli della teoria e il ruolo fondamentale delle grandezze invarianti.
Saremo così pronti ad affrontare l’algebra delle trasformazioni di Lorentz ed è solo a questo punto che potremo decidere se vale la pena continuare e provare a formalizzare la geometria dello spazio-tempo.
Partire con gli esperimenti (mentali)
Prima di proporre qualche esempio è bene chiarire un paio di cose.
L’usuale percorso didattico privilegia la discussione sull’evoluzione storica della teoria a partire dall’incompatibilità tra meccanica classica ed elettromagnetismo. Non potendo affrontare lo studio delle equazioni di Maxwell, ché una dimostrazione elementare di queste equazioni non esiste, né tanto meno discutere e comprendere nel dettaglio gli esperimenti, la scelta di utilizzare gli esperimenti mentali è una via ragionevole.
Un esperimento mentale è un esperimento che non viene realizzato in laboratorio ma solo immaginato, una pura costruzione del pensiero che serve a investigare la natura delle cose. Può essere comunicato in forma narrativa o per mezzo di schemi e diagrammi ma i suoi risultati sono derivati applicando le leggi della fisica.
All’espressione “esperimento mentale” non bisogna dare un’enfasi eccessiva né il suo utilizzo deve sorprendere o preoccupare perché molta fisica, nella scuola secondaria e non solo, è pura astrazione: siamo ben allenati a rappresentare un oggetto in volo libero come un punto materiale che viaggia nel vuoto e allo stesso modo le immagini delle onde o dei raggi di luce che si trovano sui libri sono solo schemi, modelli concettuali che permettono di spiegare i risultati delle misure.
Introdurre la relatività ristretta
Proviamo a immaginare un mondo astratto in cui gli apparati di misura sono gestiti da osservatori che operano in differenti sistemi di riferimento in moto reciproco a velocità uniforme e gli strumenti di misura sono orologi e righelli.
Un sistema di riferimento è un ente fisico reale: una stanza dove è possibile eseguire misure, un laboratorio ben piantato sulla Terra o sulla Luna ma anche in moto, magari dentro la stazione spaziale o un ascensore.
La matematica entra in gioco quando si sceglie un sistema di coordinate per identificare un punto dentro il riferimento, e questo sistema può essere cartesiano o meno, la fisica non cambia. Qualcosa che accade in una posizione specifica e in un certo istante di tempo è invece un evento, il “fotogramma” che l’osservatore ha il compito di registrare.
L’osservatore ha dunque sempre con sé almeno un orologio, ma una cosa è leggere il tempo su un orologio, un’altra è determinare un intervallo di tempo, per esempio la differenza tra le letture su due orologi differenti posti nello stesso riferimento.
Fino alla rivoluzione di Einstein, il tempo scandiva il mutamento e la sua evoluzione era indipendente dallo spazio, il luogo in cui accadono gli eventi.
Ponendo sullo stesso piano tutti gli osservatori che si muovono uno rispetto all’altro di moto rettilineo uniforme, il tempo segnato dagli orologi scorreva uguale in tutto lo spazio, indipendente dal luogo e dal moto.
Einstein si chiese in che modo, operativamente, si potessero sincronizzare gli orologi e la sua conclusione fu che la sincronizzazione galileo-newtoniana è possibile solo se si dispone di un mezzo di comunicazione che viaggi a velocità infinita.
In questo caso, un orologio che segna un certo tempo t è in grado di inviare istantaneamente questa informazione a un orologio che si trova in un altro luogo, anche molto distante, in modo che anch’esso si possa posizionare sullo stesso tempo t. Se gli orologi sono identici e ben funzionanti, resteranno perfettamente sincronizzati a ogni istante successivo.
Se così non è, ed esiste un limite alla massima velocità raggiungibile da un segnale, il problema della sincronizzazione non è più banale e bisognerà tener conto del tempo impiegato da questo segnale per viaggiare da un orologio all’altro.
Il mezzo di comunicazione più rapido è ovviamente la luce, che si propaga a una velocità costante, grande ma finita, in qualsiasi sistema di riferimento venga osservata: una proprietà sorprendente, nota sin dalla metà dell’Ottocento, all’epoca della scoperta delle leggi dell’elettromagnetismo da parte di Maxwell.
Dall’orologio a luce alle grandezze invarianti
Un orologio a luce in quiete. La luce emessa dalla sorgente S percorre una distanza d verso lo specchio ed è riflessa verso il rivelatore d. Il tempo tra l’emissione e la rilevazione è un ciclo, o un “tic”, dell’orologio.
È questa probabilmente la via migliore per cominciare a parlare di relatività e a chiarire questi aspetti ci aiuta il classico esempio riportato nei libri di testo, quello dell’orologio a luce.
Si tratta di una sorgente di luce che invia un segnale luminoso verso l’alto dove, a una certa distanza d, è sistemato uno specchio.
Il segnale è riflesso verso il basso e registrato da un rivelatore.
Se sorgente e rivelatore si trovano uno accanto all’altro, l’intervallo di tempo tra l’invio e la registrazione del segnale, misurato da un unico orologio, sarà il tempo impiegato dalla luce ad andare e tornare e cioèΔτ=2d/c (c è la velocità di propagazione della luce nel vuoto).
Se la sorgente è in moto a velocità v e osserviamo il fenomeno fermi nel nostro laboratorio, vedremo la luce viaggiare obliquamente.
Se Δx è lo spazio percorso dall’orologio, quello che lo separa dal rivelatore, sarà semplice calcolare l’intervallo di tempo trascorso Δτ utilizzando il teorema di Pitagora e ottenere Δτ=√(Δt2-Δx2/c2).
Con un piccolo sforzo aggiuntivo, tenendo conto che Δx=vΔt, riusc iamo a ricavare la ben nota formula della dilatazione del tempo Δt=Δτ/√(1-v2/c2).
Se scegliamo un riferimento diverso da quello del laboratorio, varranno comunque le stesse formule scritte in precedenza e se il nuovo spostamento sarà Δx’, diverso daΔx, anche il nuovo intervallo di tempo Δt’ sarà diverso da Δt ma avremo sempreΔtau;=√(Δt’2-Δx’2/c2): il tempo segnato dall’orologio sistemato sulla sorgente, ovvero l’intervallo di tempo tra due eventi che accadono nella stessa posizione è sempre lo stesso, è cioè un invariante chiamato tempo proprio.
Un orologio a luce in movimento. Un orologio a luce in movimento richiede un tempo Δt per completare un ciclo. Osserviamo che la luce segue un percorso a zig-zag, che è più lungo di 2d; quindi il tempo di un ciclo è maggiore nell’orologio in movimento che non in quello in quiete.
L’esperimento è semplice da immaginare, è descritto con una matematica elementare ed è anche il pretesto per discutere di costanti fisiche,quantità invarianti e grandezze conservate.
Se per un osservatore in moto con una velocità prossima a quella della luce il tempo viene alterato e si dilata, un’analoga alterazione viene subita dalla lunghezza di un corpo che si contrae quando si muove a tale velocità.
Il mondo della relatività ristretta è dunque un mondo di coordinate e osservatori in cui la realtà fisica oggettiva è descritta da distanze spazio-temporali invarianti e la struttura matematica di questi invarianti discende dalla generalizzazione del teorema di Pitagora a uno spazio in cui la posizione di una particella è identificata da un vettore a quattro componenti, le tre spaziali ordinarie e una temporale.
Non è difficile ora ricavare le trasformazioni di Lorentz e mostrare come si riducano a quelle galileiane quando c tende a infinito. Lo studio può procedere senza difficoltà fino all’equivalenza tra massa ed energia espressa dalla famigerata formula E=mc2 e qua di solito ci si ferma.
Verso la relatività generale
Un sistema di riferimento inerziale senza un campo gravitazionale. un osservatore in un ascensore nello spazio profondo è in assenza di peso. Se l’osservatore lascia un oggetto questo rimane in quiete.
Le trasformazioni di Lorentz impongono una nuova visione dello spazio e del tempo che non sono più due aspetti indipendenti della realtà, ma sono inestricabilmente legati e perdono il loro carattere assoluto formando una struttura completamente nuova: lo spazio-tempo.
In questa nuova arena della realtà fisica qualcosa ancora manca: non abbiamo tenuto conto degli osservatori posti in un sistema di riferimento non inerziale, un sistema che è accelerato o in rotazione rispetto a un sistema inerziale.
Mentre in quest’ultimo vale il principio di inerzia galileiano (ogni corpo rimane nel suo stato di quiete o di moto rettilineo uniforme a meno che non sia costretto dall’intervento di una forza a cambiarlo), in un sistema non inerziale questo principio non vale più a causa della presenza delle forze inerziali.
Un sistema di riferimento accelerato. Se l’ascensore della figura sovrastante è sottoposto a un’accelerazione g diretta verso l’alto, l’osservatore nell’ascensore vedrà che gli oggetti lasciati o lanciati cadono verso il pavimento dell’ascensore con un’accelerazione g diretta verso il basso.
Immaginate di stare su una giostra in rotazione e di sperimentare la forza centrifuga che tende ad allontanarvi dall’asse di rotazione: per voi tutto è soggetto a forze e queste forze sono proporzionali alla massa dei corpi che le subiscono esattamente come quelle gravitazionali.
Una forza di inerzia si distingue dalle altre forze perché non c’è un corpo che la esercita o dal quale proviene, non a caso si chiama anche forza apparente.
Si tratta di un termine che eviterei di utilizzare perché, anche se è “apparente”, essa esiste realmente per un osservatore accelerato.
A questo punto converrà spendere un po’ di tempo nella discussione dell’equivalenza tra massa inerziale, la grandezza fisica che misura la capacità di un corpo di opporsi al moto, e massa gravitazionale, quella che si può misurare con una bilancia, anche perché si tratta del “primo mattone” che servirà per edificare il principio di equivalenza che ci condurrà per mano verso la relatività generale.
Entra dunque in gioco la gravità ma, curiosamente, si trova il modo di farla sparire subito.
L’esempio classico è quello di un ascensore in caduta libera. Mentre precipita, tutte le sue parti e tutti gli oggetti al suo interno subiscono la medesima accelerazione e il moto di qualsiasi oggetto è determinato esclusivamente dalle interazioni con gli altri oggetti che si trovano all’interno: la gravità non c’è più! La forza di gravità equivale a tutti gli effetti alla forza di inerzia in un riferimento accelerato e dunque se dentro un laboratorio in caduta libera si esegue un qualsiasi esperimento di fisica, non sarà possibile distinguerlo da un esperimento fatto in un riferimento (inerziale) lontanissimo da qualsiasi sorgente di forze gravitazionali.
Un trucco imperfetto
In realtà il “dileguarsi” della forza di gravità è un trucco che non riesce mai in maniera perfetta.
Il nostro prestigiatore ha un po’ barato perché l’equivalenza tra un sistema di riferimento in caduta libera (o in volo) e sistemi di riferimento inerziali vale solo in una regione di spazio in cui il campo gravitazionale non cambia in maniera apprezzabile.
Questo requisito si può realizzare in due modi: assumendo un campo gravitazionale uniforme, per esempio nei pressi della superficie terrestre dove siamo abituati a considerare l’accelerazione di gravità g costante, o limitando i nostri esperimenti all’interno di una regione spaziotemporale abbastanza piccola.
Quanto “piccola”? La forza di gravità dentro un ascensore che cade liberamente verso il basso non si può cancellare esattamente dappertutto, ma quello che ne resta è un residuo trascurabile che nessun esperimento è in grado di valutare.
Se invece si opera su una regione spaziale estesa o per tempi lunghi, ci si accorge della presenza della Terra, che produce quel residuo della forza di gravità che non è cancellato neanche nel riferimento in caduta libera: due oggetti all’interno dell’ascensore non restano fermi e le loro curve orarie non sono rette parallele, non è cioè possibile avere moti naturali che mantengono una distanza costante.
In un approccio ancora newtoniano si parla di forze di marea, avendo in mente quello che accade alla Terra in volo libero nel campo gravitazionale del Sole e della Luna. In questo caso, la grande massa fluida degli oceani risente della disuniformità del campo gravitazionale di Luna e Sole per cui in alcuni punti l’acqua si solleva e in altri si abbassa in dipendenza dalla posizione di questi corpi sulla volta celeste.
Possiamo dunque riformulare tutta la questione così: le leggi della fisica sono quelle della relatività ristretta solo all’interno di una regione dello spaziotempo infinitamente piccola.
Abbiamo costruito il secondo pezzo del principio di equivalenza che si completa affermando che l’esito di qualsiasi esperimento locale non gravitazionale è indipendente da dove e quando è stato eseguito nell’universo.
La dilatazione gravitazionale del tempo
Un’importante conseguenza del principio di equivalenza è la spiegazione di un effetto di dilatazione del tempo che non è di natura cinematica ma gravitazionale.
Facciamo decollare un missile al cui interno siano sistemati, in testa e in coda, due osservatori dotati ciascuno di un orologio a luce in grado di inviare un raggio di luce al secondo.
Supponiamo che il missile si muova verso l’alto con un’accelerazione costante a.
Se le velocità sono non relativistiche (v=at<<c) il problema si riduce a un semplice esercizio di meccanica newtoniana, possiamo cioè utilizzare le usuali leggi del moto rettilineo uniformemente accelerato per determinare come varia la posizione di qualunque parte del missile in funzione del tempo: z(t)=z0+v0t+at2/2.
Un raggio di luce emesso al tempo tA dall’orologio posto in alto (A) arriverà al tempo tBall’orologio posto in basso (B) percorrendo la distanza z(tA) – z(tB) = c(tB-tA) ~ d + a(tB2-tA 2)/2 < d dove d è la distanza tra i due orologi.
Il segnale successivo, emesso al tempo tA+ΔtA arriverà dopo un certo tB+ΔtBpercorrendo la distanza z(tA+ΔtA) – z(tB+ΔtB) = c(tB-tA+ΔtB -ΔtA).
Rendendo esplicito z(t) e utilizzando il risultato ottenuto in precedenza è facile ricavare (e lo si lascia come esercizio) che nel limite ad/c2<<1 si ottiene ΔtA=ΔtB (1+ad/c2).
Per il principio di equivalenza la medesima formula deve valere anche in un campo gravitazionale a=g e dunque orologi posti a differenti altezze, ovvero in regioni differenti del campo gravitazionale, devono segnare tempi differenti. Dove la gravità è più intensa il tempo scorre più lento.
Questo effetto è stato osservato sperimentalmente ed è una correzione di cui si tiene conto, per esempio, per il corretto funzionamento del GPS (Global Positioning System).
Satellite GPS
L’architettura dello spazio-tempo
Siamo giunti allo snodo cruciale per l’insegnamento della relatività generale, da affrontare introducendo quello che di solito si trascura: il passaggio dalle forze ai campi. Ai tempi di Newton, le forze si riconoscevano solo per l’azione sui corpi; dopo l’introduzione del concetto di campo le forze non sono più una caratteristica dei corpi, ma del mezzo che si trova tra di essi.
Dal punto di vista di Einstein il discorso è semplice: non è possibile disegnare due grafici di moti naturali che siano due rette parallele, perché lo spazio-tempo è curvo (non ci sono rette parallele in uno spazio-tempo curvo).
Il principio di inerzia vale in uno spaziotempo vuoto che è piatto e la causa fisica che determina la presenza della curvatura è legata alla distribuzione di massaenergia in una determinata regione spazio-temporale: lo spazio-tempo diviene un oggetto fisico la cui vicenda è completamente determinata dal campo gravitazionale.
Einstein considerava la derivazione delle equazioni del campo gravitazionale «la scoperta più preziosa della mia vita». Proprio lui, che all’inizio aveva giudicato la trascrizione di Minkowski della sua teoria ristretta in una forma tensoriale «una erudizione superflua» («Da quando i matematici hanno invaso la teoria della relatività, non la comprendo più neppure io»).
La ricerca di una teoria generale della relatività gli fece però presto ammettere: «Una cosa è certa, in tutta la mia vita non ho mai lavorato tanto duramente, e l’animo mi si è riempito di un sacro rispetto per la matematica, la parte più sottile della quale avevo finora considerato, nella mia dabbenaggine, un inutile orpello.
Di fronte a tale problema, l’originaria teoria della relatività è un gioco da ragazzi». Se intendiamo raccontare ai ragazzi anche quest’ultima avventura non dovremo mai dimenticare queste parole.
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