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Un gruppo internazionale di ricercatori ha messo a confronto il microbiota intestinale degli italiani con quello degli Hadza della Tanzania, una delle ultime popolazioni di cacciatori-raccoglitori esistenti sul pianeta. E i risultati sono molto interessanti.
Il microbiota intestinale – l’insieme di microorganismi simbiontici che a migliaia di miliardi abitano il nostro intestino – è un “vecchio amico” dell’uomo, e nel corso della sua storia evolutiva lo ha aiutato ad adattarsi a stili di vita e ambienti diversi. E’ la conclusione a cui è giunto uno studio internazionale molto particolare, che ha coinvolto antropologi, microbiologi, biologi molecolari e chimici analitici di sette istituzioni in quattro paesi, compresa l’Università di Bologna. Per l’Alma Mater, in particolare, hanno lavorato Marco Candela, Simone Rampelli, Manuela Centanni, Giulia Basaglia, Silvia Turroni, Elena Biagi, Jessica Fiori, Roberto Gotti e Patrizia Brigidi del Dipartimento di Farmacia e Biotecnoligie, oltre a Donata Luiselli del Dipartimento di Scienze biologiche, geologiche e ambientali.
Il gruppo di ricercatori si è messo al lavoro sequenziando per la prima volta il microbiota intestinale degli Hadza della Tanzania, una delle ultime popolazioni di cacciatori-raccoglitori esistenti sul pianeta, e confrontandolo poi con quello di alcuni cittadini italiani, presi come rappresentanti di uno stile di vita occidentale. Gli Hadza sono una piccola tribù di non più di trecento individui e rappresentano oggi una testimonianza unica dello stile di vita dei nostri predecessori paleolitici. Stile di vita che, è bene ricordarlo, ha caratterizzato il 95 per cento della storia dell’evoluzione umana.
Qual è stato allora, nel corso dei millenni, il ruolo dei microorganismi simbionti che popolano il nostro intestino? I risultati dello studio – da poco pubblicato sulla rivista Nature Communications – sono estremamente interessanti e per certi versi sorprendenti.
Per cominciare, si è osservato che il microbiota degli Hadza è perfettamente adatto e adattato a metabolizzare le fibre indigeribili che caratterizzano la loro dieta, contribuendo a ricavare più energia dagli alimenti fibrosi caratteristici della loro dieta abituale. Inoltre, Il microbiota degli Hadza è arricchito di microorganismi comunemente considerati batteri opportunisti patogeni, mentre è povero di batteri ritenuti benefici per la salute dell’ospite. Il fatto, però, che gli Hadza non siano soggetti a malattie infiammatorie croniche ha portato gli studiosi a una ridefinizione dei concetti di “sano” e “malato” del microbiota intestinale: sono distinzioni non assolute, ma dipendenti dal contesto.
C’è poi una scoperta sorprendente, mai verificata prima in nessun’altra popolazione: gli uomini e le donne della tribù Hadza differiscono in maniera significativa per tipo e quantità del microbiota intestinale. Una diversità legata al sesso che riflette le divisioni del lavoro all’interno della comunità e, sempre secondo lo studio, sembra avere implicazioni per la fertilità delle donne.
Ma l’aspetto forse più rilevante della ricerca è che rispetto alla popolazione occidentale, gli Hadza possiedono un ecosistema microbico intestinale con molte più specie batteriche. Una ricca popolazione di batteri e microorganismi che potrebbe corrispondere ad una configurazione ancestrale del microbiota umano, pensata per avere maggiore capacità adattativa.
Un dato quest’ultimo che si dimostra estremamente importante. La diversità genetica del microbiota intestinale, infatti, è un fattore fondamentale per la nostra salute. Occorre allora – suggeriscono gli studiosi – contrastare il progressivo impoverimento della diversità biologica del nostro ecosistema microbico intestinale, facendo attenzione ad abitudini come quella dell’estrema igienizzazione o a diete con alto contenuto di zuccheri e grassi.
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