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Il 17 aprile 2014, in quello che gli attivisti iraniani hanno chiamato il “giovedi’ nero”, i prigionieri politici e di coscienza della sezione 350 della prigione di Evin, nella capitale Teheran, sono stati aggrediti, picchiati e sottoposti a ulteriori maltrattamenti e ad alcuni dei feriti sono state negate cure mediche adeguate.
In un nuovo rapporto, intitolato “Giustizia: una parola aliena”, Amnesty International ha documentato le violenze gratuite cui sono stati sottoposti decine di detenuti che avevano chiesto di essere presenti durante le ispezioni mensili nelle loro celle. I prigionieri sono stati bendati e ammanettati, portati fuori dalle celle e fatti passare sotto un “tunnel” formato da agenti della sicurezza che li hanno ripetutamente picchiati coi manganelli sul volto, in testa e sulla schiena.
“Le forze di sicurezza hanno reagito con una dose agghiacciante di brutalita’ alle proteste dei prigionieri di Evin, picchiandoli, trascinandoli lungo il pavimento e insultandoli” – ha dichiarato Said Boumedouha, vicedirettore del programma Medio Oriente e Africa del Nord di Amnesty International.
Finora, non risulta sia stata avviata alcuna indagine indipendente sull’accaduto. Una settimana dopo il “giovedi’ nero”, a seguito dell’indignazione dell’opinione pubblica, il direttore delle prigioni Golamhossein Esma’ili e’ stato rimosso dall’incarico, per essere poi assegnato a un ruolo nell’apparato giudiziario del paese che un portavoce di quest’ultimo ha definito una “promozione”. Il capo della magistratura ha smentito che il 17 aprile fosse accaduto alcunche’ nella prigione di Evin, mettendo in guardia “coloro che diffondono bugie”. Le notizie iniziali secondo cui il governo aveva nominato una commissione d’inchiesta sono state smentite dal ministro della Giustizia, Mostafa Pourmohammadi.
“Finora, le autorita’ hanno cercato in tutti i modi di nascondere sotto il tappeto il ‘giovedi’ nero’. La mancanza di volonta’ da parte loro d’indagare e chiamare i responsabili a renderne conto e’ inaccettabile e conferma che l’impunita’ e’ un problema perdurante in Iran. Le autorita’ devono cambiare rotta e avviare immediatamente un’indagine indipendente, approfondita e imparziale” – ha commentato Boumedouha.
La violenza del “giovedi’ nero” e’ iniziata quando guardie penitenziarie e uomini in borghese, alcuni dei quali col volto coperto da maschere e occhiali da sole, hanno iniziato a perquisire le celle della sezione 350. I prigionieri hanno protestato, chiedendo di essere presenti. In reazione, i pubblici ufficiali hanno cominciato a picchiarli, prenderli a calci e manganellarli. Alcune guardie hanno trascinato i prigionieri lungo il pavimento strappandogli i vestiti e picchiandoli.
Di li’ a poco, almeno 32 prigionieri – alcuni dei quali costretti a denudarsi – sono stati trasferiti in isolamento nella sezione 240. La maggior parte di loro ha intrapreso uno sciopero della fame.
La moglie del prigioniero di coscienza Mohammad Sadiq Kabudvand, un giornalista curdo che sta scontando una condanna a 11 anni di carcere, ha riferito ad Amnesty International che suo marito e’ stato preso a calci e pugni dalle guardie penitenziarie fino a fargli perdere conoscenza. Quando si e’ risvegliato in ospedale non era in grado di parlare e giaceva accanto a un defibrillatore, segno che con ogni probabilita’ aveva avuto un arresto cardiaco.
Il 21 aprile, alcuni familiari hanno ottenuto il permesso di visitare i loro parenti. Hanno riferito scene “dolorose” e “scioccanti” di prigionieri pieni di lividi e ferite. Un padre ha raccontato di aver incontrato suo figlio sordo da un orecchio (segno di un probabile colpo al capo), con un collare cervicale e con una profonda ferita aperta sulla testa che necessitava di essere suturata.
Almeno cinque prigionieri sono stati ricoverati in ospedale, per essere presto riportati in carcere senza aver ricevuto cure mediche adeguate.
“Le autorita’ hanno tenuto un atteggiamento disumano e agghiacciante di fronte alle vittime del pestaggio. A molti, in una flagrante violazione del diritto internazionale, sono state negate cure mediche adeguate” – ha commentato Boumedouha.
I familiari che hanno chiesto informazioni sulla situazione dei loro congiunti hanno ricevuto scarse notizie dalla direzione del carcere. Alcuni di essi sono stati minacciati di gravi conseguenze se avessero parlato dei loro parenti feriti a Evin. Molti hanno ricevuto un sms da un numero sconosciuto che prometteva “conseguenze” se avessero preso parte a una manifestazione indetta di fronte all’ufficio del procuratore. Almeno due persone, Kaveh Darolshafa e Ahmad Reza Haeri, sono state arrestate per aver preso le difese dei loro familiari in carcere.
“Invece di perseguitare queste famiglie, le autorita’ dovrebbero dimostrare l’intenzione di prendere sul serio queste denunce e aprire un’inchiesta con tutti i crismi per portare di fronte alla giustizia i responsabili” – ha concluso Boumedouha.
Amnesty International sta inoltre chiedendo che tutti i prigionieri abbiano regolare accesso ai loro avvocati e familiari.
Il rapporto “Giustizia: una parola aliena” e’ disponibile in lingua inglese all’indirizzo: http://www.amnesty.it/Iran-indaghi-su-giovedi-nero-prigione-Evin e presso l’Ufficio Stampa di Amnesty International Italia.
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