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Brevettate le nanoparticelle che eliminano le placche dell’Alzheimer in modelli animali
Particelle che entrano nel cervello e rimuovono le placche della proteina, nota come ß-Amiloide, che si formano nella malattia di Alzheimer. Le hanno chiamate Amyposomes e sono state letteralmente costruite (ingegnerizzate, per la precisione) e brevettate dai ricercatori dell’Università di Milano-Bicocca. Per il momento sono state testate con successo nel modello animale, quindi non ci sono ancora applicazioni per l’uomo. La riduzione delle placche di ß-Amiloide è stata confermata dalla tomografia a emissione di positroni (PET, Positron emission tomography), una tecnica di bioimaging, alla quale sono stati sottoposti i topi trattati con le nanoparticelle (Guarda e scarica l’immagine PET del cervello prima e dopo il trattamento, Foto 1).
Lo studio, che è la parte conclusiva del progetto Europeo NAD (Nanoparticles for therapy and diagnosis of Alzheimer Disease), è stato pubblicato su “The Journal of Neuroscience” (Multi-functional liposomes reduce brain ß-Amyloid burden and ameliorate memory impairment in Alzheimer’s disease mouse models, doi:10.1523/JNEUROSCI.0284-14.2014).
Il lavoro è frutto di una collaborazione tra l’Università di Milano-Bicocca e l’IRCCS Istituto di Ricerche Farmacologiche ‘Mario Negri’ di Milano a cui ha contribuito, per le analisi PET, anche l’Università di Turku, in Finlandia.
Il bersaglio terapeutico delle nanoparticelle disegnate dai ricercatori dell’Università di Milano-Bicocca è la proteina ß-Amiloide (foto 2). Le nanoparticelle somministrate ai topi, che costituiscono un modello animale di Alzheimer, dopo tre settimane di trattamento, non solo hanno rimosso le placche di ß-Amiloide dall’encefalo, ma hanno anche favorito lo smaltimento dei frammenti di ß-Amiloide tossica attraverso il circolo, da parte del fegato e della milza. L’eliminazione dei depositi di ß-Amiloide a livello cerebrale è stata associata ad un recupero delle funzioni cognitive misurato con uno specifico test di riconoscimento degli oggetti.
«La terapia – spiega Massimo Masserini, ordinario di Biochimica dell’Università di Milano-Bicocca e coordinatore del progetto europeo NAD – è basata su una strategia, impossibile da realizzare con un farmaco convenzionale, che utilizza uno strumento nanotecnologico, cioè particelle di dimensioni di un miliardesimo di metro. Nella ricerca pubblicata su The Journal of Neuroscience il trattamento è riuscito a frenare la progressione della malattia, ma stiamo anche valutando, per ora sempre sul modello animale, la possibilità di prevenirne l’insorgenza, intervenendo quando le capacità cognitive e la memoria sono solo minimamente compromesse. Se in futuro questi risultati saranno verificati nell’uomo, il trattamento, abbinato ad una diagnosi precoce permetterebbe ai malati di Alzheimer di condurre una vita pressoché normale».
«In realtà – commenta Gianluigi Forloni, capo del Dipartimento di Neuroscienze dell’IRCCS Istituto di Ricerche Farmacologiche ‘Mario Negri’ di Milano – i risultati ottenuti nei modelli animali sono promettenti e arrivano a conclusione di un lavoro complesso che ha coinvolto molti ricercatori. Tuttavia rappresentano solo un primo passo, anche se fondamentale, nella direzione di poter considerare queste nanoparticelle uno strumento adeguato all’intervento terapeutico nell’uomo».
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